(La versione originale di questo articolo è stata pubblicata su "Le Scienze", n.482, ottobre 2008)
Nel 1859 una tempesta solare di incredibile violenza fece impazzire i
telegrafi di mezzo mondo. Se un simile evento si ripetesse oggi, le
conseguenze per la nostra civiltà tecnologica sarebbero ben più
drammatiche.
di Sten F. Odenwald e James L. Green
Domenica 28 agosto 1859, mentre sulle Americhe calava la notte,
apparvero le fantasmagoriche luci delle aurore. Dal Maine alla punta
della Florida, vivide cortine luminose invasero il cielo. Gli abitanti
di Cuba videro con stupore le aurore proprio sopra di loro; i diari di
bordo delle navi che si trovavano nei pressi dell’equatore descrivono
luci cremisi che si innalzavano fino a metà della volta celeste.
In
tutto il mondo, gli strumenti scientifici che registravano
pazientemente piccole variazioni del magnetismo terrestre balzarono di
colpo fuori scala, e correnti elettriche spurie si generarono nelle
linee telegrafiche. A Baltimora gli operatori del telegrafo impiegarono
14 ore, dalle 22.00 alle 10.00 del giorno dopo, per trasmettere un
notiziario di 400 parole.
Il giovedì successivo, 1° settembre,
l’astronomo inglese Richard C. Carrington stava disegnando un gruppo di
macchie solari davvero insolito, incuriosito dall’enorme estensione
delle aree scure. Alle 11.18, osservò un intenso lampo di luce bianca
che proveniva da gruppo di macchie. Lo spettacolo durò solo 5 minuti; 17
ore più tardi, nel continente americano, una seconda ondata di aurore
trasformò la notte in giorno fino alla latitudine di Panama. La luce
cremisi e verde era abbastanza intensa da permettere di leggere il
giornale. I minatori delle Montagne Rocciose si alzarono e fecero
colazione all’una di notte, pensando che fosse sorto il Sole in una
giornata nuvolosa. Le linee telegrafiche di tutta Europa e Nord America
divennero inutilizzabili.
La stampa cercò qualche scienziato in grado di spiegare quello che stava accadendo, ma all’epoca
le conoscenze dei fenomeni aurorali erano scarse. Si ipotizzava
che fossero dovuti a materiale meteoritico proveniente dallo spazio,
alla luce riflessa da iceberg delle regioni polari o a lampi di alta
quota. Fu proprio la «Grande Aurora» del 1859 a inaugurare un nuovo
paradigma. Nel numero di «Scientific American» del 15 ottobre di
quell’anno si leggeva che «ormai è pienamente dimostrata una connessione
tra le luci del nord e le forze dell’elettricità e del magnetismo». Da
allora la ricerca ha appurato che i fenomeni aurorali sono generati da
eventi solari di grande intensità, che emettono enormi nubi di plasma e
perturbano temporaneamente il campo magnetico del nostro pianeta.
Secondo alcuni ricercatori, le nostre attuali capacità di previsione del
meteo spaziale sono confrontabili con le previsioni del tempo
atmosferico degli anni cinquanta
L’impatto della tempesta del 1859
non fu molto pesante: la civiltà tecnologica era ancora agli albori. Ma
se un evento simile si ripetesse oggi, potrebbe danneggiare gravemente i
satelliti, interrompere le comunicazioni radio e provocare blackout
elettrici su interi continenti che richiederebbero diverse settimane per
essere riparati. Fortunatamente, tempeste solari di quella entità si
verificano in media una volta ogni 500 anni; ma fenomeni con intensità
pari alla metà di quella dell’evento del 1859 si verificano ogni 50 anni
circa. L’ultimo, avvenuto il 13 novembre 1960, provocò perturbazioni
geomagnetiche e interruzioni delle comunicazioni radio in tutto il
mondo. Secondo alcune stime, se non ci prepareremo opportunamente, i
costi diretti e indiretti di una futura supertempesta solare potrebbero
eguagliare quelli di un grande uragano o terremoto.
La tempesta (solare) perfetta
Il
numero di macchie solari, così come altri segni dell’attività magnetica
solare, aumenta e diminuisce seguendo un ciclo di 11 anni. Quello in
corso è iniziato lo scorso gennaio; nei prossimi 5-6 anni l’attività
solare crescerà rispetto alla relativa quiete attuale. Negli 11 anni
precedenti, dalla superficie solare sono stati emessi 21.000 brillamenti
e 13.000 nubi di gas ionizzato, o plasma. Questi fenomeni, chiamati
collettivamente tempeste solari, sono dovuti all’incessante turbolenza
del gas che costituisce la nostra stella. Per certi aspetti, si tratta
di versioni ingigantite delle tempeste terrestri, con l’importante
differenza che i gas solari sono pervasi da campi magnetici che li
modellano e infondono loro energia. I brillamenti sono analoghi ai
fulmini: sono eruzioni di particelle ad alta energia e di raggi X di
grande intensità, dovuti a variazioni del campo magnetico a scala
relativamente piccola per lo standard solare, con ampiezza di alcune
migliaia di chilometri. Le cosiddette espulsioni di massa coronale (CME)
sono paragonabili agli uragani: si tratta di colossali bolle
magnetiche, con diametro di milioni di chilometri, che scagliano nello
spazio nubi di plasma con massa di miliardi di tonnellate a una velocità
di alcuni milioni di chilometri all’ora.
La maggior parte di queste tempeste produce solo aurore nei cieli delle
alte latitudini: l’equivalente di un modesto temporale pomeridiano. Di
tanto in tanto, però, il Sole scatena un uragano. Nessun essere umano
vivente ha mai assistito a un’autentica supertempesta solare, ma segni
di questi fenomeni sono stati scoperti in luoghi sorprendenti.
Nelle
carote di ghiaccio prelevate in Groenlandia e in Antartide, sono stati
scoperti picchi della concentrazione di gas nitrati intrappolati, che
negli ultimi decenni sembrano associati a eruzioni documentate di
particelle solari. Un picco corrispondente al 1859 si distingue dagli
altri perché è il più grande degli ultimi 500 anni, e ha un’intensità
quasi equivalente alla somma di tutti gli eventi principali degli ultimi
40 anni.
Per quanto violentissima, la supertempesta del 1859 non è
qualitativamente diversa dagli eventi minori. Insieme ad altri
ricercatori, abbiamo ricostruito quello che accadde basandoci su
cronache dell’epoca e su misurazioni satellitari di tempeste più lievi
degli ultimi decenni.
1. Avvisaglie di tempesta.
Le condizioni che prepararono la supertempesta del 1859 si
manifestarono intorno al picco del ciclo solare con la comparsa sul Sole
di un grande gruppo di macchie in posizione quasi equatoriale. Le
macchie erano così estese che astronomi come Carrington riuscirono a
osservarle a occhio nudo (naturalmente con opportune protezioni). Al
momento dell’emissione della prima CME, questo gruppo di macchie
fronteggiava la Terra, collocando il nostro pianeta al centro nel
mirino. Tuttavia, non è necessario che la mira del Sole sia così
precisa. Quando una CME arriva all’altezza dell’orbita terrestre,
generalmente si è espansa fino a un’ampiezza di circa 50 milioni di
chilometri, migliaia di volte più del diametro del nostro pianeta.
2. La prima eruzione.
La supertempesta emise non una, ma due CME. La prima potrebbe aver
impiegato le usuali 40-60 ore per raggiungere la Terra. I dati
magnetometrici del 1859 fanno pensare che il campo magnetico del plasma
espulso avesse una conformazione elicoidale. Quando colpì la Terra, il
campo puntava verso nord. Con questo orientamento, rafforzò il campo
magnetico del nostro pianeta, e questo ne minimizzò gli effetti. La CME
compresse la magnetosfera terrestre – la regione dello spazio in cui il
campo magnetico del nostro pianeta prevale su quello solare – e fu
registrata dalle stazioni magnetometriche al suolo come un improvviso
prodromo di tempesta, nel gergo degli studiosi del Sole. Per il resto,
passò inosservata. Tuttavia, mentre il plasma oltrepassava la Terra, il
suo campo magnetico ruotò lentamente. Dopo 15 ore risultò opposto,
anziché concorde, a quello terrestre, mettendo a contatto le linee di
forza orientate verso nord del campo del nostro pianeta con quelle
orientate verso sud del campo del plasma. A questo punto vi fu una
riconnessione delle linee di forza in una configurazione più semplice,
che liberò enormi quantità di energia. È questo il momento in cui
iniziarono i disturbi alle comunicazioni via telegrafo e i fenomeni
aurorali. In un giorno o due il plasma oltrepassò la Terra e il campo
geomagnetico tornò alla normalità.
3. Il brillamento X. Le CME più violente tipicamente
coincidono con uno o più brillamenti di grande intensità, e la
supertempesta del 1859 non fece eccezione. Il brillamento nel visibile
osservato il 1° settembre implicava temperature di quasi 50 milioni di
kelvin. E di conseguenza, emise con ogni probabilità non solo radiazione
visibile, ma anche raggi X e gamma. Fu il brillamento solare più
luminoso mai registrato, il che testimonia la liberazione di quantità di
energia colossali nell’atmosfera solare. La radiazione raggiunse la
Terra alla velocità della luce, in 8,5 minuti, anticipando di parecchio
la seconda CME. Se all’epoca fossero esistite le radio a onde corte, la
deposizione di energia nella ionosfera (lo strato di gas ionizzati ad
alta quota che riflette le onde radio) le avrebbe messe fuori uso.
L’energia dei raggi X inoltre riscaldò l’alta atmosfera e la fece
espandere di decine o addirittura centinaia di chilometri.
4. La seconda eruzione.
Prima che il plasma del normale vento solare avesse il tempo di
riempire la cavità formata dal passaggio della prima CME, il Sole emise
una seconda CME che, non incontrando quasi alcun ostacolo, raggiunse la
Terra in appena 17 ore. Questa volta il campo magnetico della CME era
orientato verso sud al momento del contatto e il caos geomagnetico fu
immediato. La sua violenza fu tale da comprimere la magnetosfera
terrestre, che normalmente si estende per circa 60.000 chilometri, fino a
soli 7000 chilometri o forse addirittura fino a respingerla all’interno
dell’alta stratosfera. Le fasce di radiazione di Van Allen che
circondano la Terra furono temporaneamente eliminate, e quantità
gigantesche di protoni ed elettroni furono depositate nell’alta
atmosfera. Queste particelle potrebbero spiegare le intense aurore rosse
osservate in molte parti del mondo.
5. Protoni ad alta energia.
Il brillamento solare e le intense CME provocarono l’emissione di
protoni accelerati fino a energie pari o superiori a 30 milioni di
elettronvolt. Nelle zone artiche, dove la protezione del campo magnetico
terrestre è minore, queste particelle penetrarono fino a una quota di
50 chilometri e depositarono ulteriore energia nella ionosfera. Secondo
Brian C. Thomas della Washburn University, la pioggia di protoni
associata alla supertempesta del 1859 ridusse l’ozono della stratosfera
del cinque per cento: furono necessari quattro anni perché lo strato di
ozono tornasse alla normalità. I protoni con energie più elevate,
superiori a un miliardo di elettronvolt, reagirono con i nuclei degli
atomi di azoto e ossigeno dell’atmosfera, generando neutroni e dando
origine alle anomalie nell’abbondanza dei nitrati. Una pioggia di
neutroni raggiunse il suolo in quello che oggi viene chiamato «evento di
superficie», ma allora non esistevano tecnologie in grado di rilevare
il fenomeno. Fortunatamente, non era pericolosa per la salute.
6. Correnti elettriche colossali.
Via
via che le aurore si diffondevano dalle alte latitudini verso quelle
più basse, le correnti elettriche ionosferiche e aurorali che le
accompagnavano indussero nel suolo intense correnti elettriche a scala
continentale, che penetrarono nei circuiti dei telegrafi. Scariche di
eccezionale potenza provocarono casi di folgorazione e, secondo le
cronache, causarono l’incendio di parecchie stazioni telegrafiche.
Se
vi fosse una supertempesta, i satelliti in orbita bassa correrebbero
un notevole rischio di bruciare nell’atmosfera entro settimane o mesi
Satelliti alla brace
Quando
avverrà di nuovo una grande tempesta geomagnetica, le prime vittime
saranno i satelliti. Anche in circostanze normali, le particelle dei
raggi cosmici erodono i pannelli solari e riducono la generazione di
energia del due per cento circa all’anno e interferiscono con i circuiti
elettronici. Molti satelliti per comunicazioni, come Anik E1 ed E2 nel
1991 e Telstar 401 nel 1997, sono stati danneggiati o addirittura
perduti in questo modo. Una grande tempesta solare può «invecchiare» un
satellite di 1-3 anni in poche ore, provocando centinaia di anomalie, da
comandi erronei ma innocui fino a scariche elettrostatiche distruttive.
Per
capire che cosa potrebbe accadere ai satelliti, abbiamo simulato 1000
supertempeste, con intensità variabile da quella dell’evento più grave
dell’era spaziale (avvenuto il 20 ottobre 1989) a quella del 1859. È
risultato che le tempeste produrrebbero significative perdite
economiche: il costo totale, in molti scenari, sarebbe superiore a 20
miliardi di dollari. E questo presupponendo che al momento del lancio
dei satelliti siano stati previsti di un’ampia capacità di riserva dei
transponder e di un margine di sicurezza del dieci per cento per
l’energia. Con ipotesi meno ottimistiche, le perdite si avvicinerebbero a
70 miliardi di dollari, più o meno le entrate di un anno di tutti i
satelliti per comunicazioni.
Fortunatamente i satelliti per
comunicazioni in orbita geosincrona sono molto resistenti nei confronti
di eventi a cadenza decennale, e la loro vita operativa è aumentata dai 5
anni circa del 1980 ai quasi 17 anni di oggi. Per aumentare la
produzione di energia e ridurre la massa, i pannelli solari in silicio
sono stati sostituiti con altri in arseniuro di gallio e germanio,
ottenendo così anche una migliore resistenza a danni prodotti dai raggi
cosmici. Inoltre gli operatori satellitari ricevono le previsioni su
possibili tempeste solari diffuse dalla National Oceanic and Atmospheric
Administration (NOAA), e quindi possono evitare di far compiere ai
satelliti manovre complesse quando c’è una tempesta in arrivo. Queste
strategie potrebbero senz’altro ridurre l’impatto di un evento a grande
scala. Per rendere i satelliti ancora più robusti, è possibile
installare scudi più spessi, abbassare il voltaggio dei pannelli solari
per diminuire il rischio di scariche elettrostatiche incontrollate,
aggiungere ulteriori sistemi di backup e rendere il software meno
suscettibile alla corruzione di dati.
Altri effetti di una supertempesta sono però più difficili da sventare.
La deposizione di energia da parte dei raggi X provoca l’espansione
dell’atmosfera, aumentando l’attrito sui satelliti in orbita a quote
inferiori a 600 chilometri. Il satellite giapponese ASCA incontrò simili
condizioni nel corso della tempesta del 14 luglio 2000, che scatenò una
serie di problemi di assetto e di perdite di potenza che alcuni mesi
dopo ne provocarono il rientro anticipato. Se vi fosse una
supertempesta, i satelliti in orbita bassa correrebbero un notevole
rischio di bruciare nell’atmosfera entro alcune settimane o mesi
dall’evento.
Le luci si spengono
I satelliti,
comunque, sono stati progettati per funzionare a dispetto dei capricci
della meteorologia spaziale. Le linee di distribuzione elettrica,
viceversa, sono fragili anche nelle condizioni migliori; si stima che
ogni anno l’economia statunitense perda circa 80 miliardi di dollari a
causa di cali di corrente e blackout locali.
Durante una
tempesta solare, si manifestano problemi del tutto nuovi. I grandi
trasformatori sono messi a terra elettricamente e quindi suscettibili di
danni causati da correnti continue geomagneticamente indotte. Queste
correnti fluiscono nel trasformatore da cavi collegati al suolo e
possono provocare picchi di temperatura di 200 gradi centigradi o più
negli avvolgimenti, causando la vaporizzazione del liquido di
raffreddamento e arrostendo letteralmente il trasformatore. E anche se
quest’ultimo riesce a evitare un simile destino, la corrente indotta può
saturare il nucleo magnetico durante una metà del ciclo della corrente
alternata, distorcendo le forme d’onda a 50 o 60 hertz. Una parte della
corrente è trasformata in frequenze che i dispositivi elettrici non sono
in grado di filtrare ed eliminare. Anziché ronzare a una tonalità pura,
i trasformatori comincerebbero a balbettare e strillare. E poiché una
tempesta magnetica influenza i trasformatori su scala continentale, è
probabile che si verifichi in breve tempo un collasso della regolazione
di tensione su più reti nazionali. I sistemi per la distribuzione di
energia elettrica funzionano con un margine di sicurezza così ridotto
che non occorrerebbe molto per sopraffarli.
Secondo gli studi di
John G. Kappenman della Metatech Corporation, se oggi avvenisse una
tempesta magnetica come quella del 15 maggio 1921, causerebbe un
blackout su metà del Nord America. Una tempesta molto più violenta, come
quella del 1859, potrebbe rendere inutilizzabile l’intera rete
elettrica. Anche altre zone industrializzate sono vulnerabili, ma il
Nord America è più a rischio per la sua vicinanza al Polo Nord
magnetico. A causa dei danni fisici ai trasformatori, per riparare o
sostituire tutti i componenti guasti potrebbero occorrere settimane o
addirittura mesi. Nel 2003 Kappenman dichiarò al Congresso degli Stati
Uniti che «soccorrere e assistere una popolazione colpita che potrebbe
essere di oltre 100 milioni di persone sarà una sfida ardua».
Una
supertempesta interferirebbe anche con i segnali radio, inclusi quelli
dei sistemi di navigazione satellitare. Oltre a perturbare la ionosfera,
attraverso cui si propagano i segnali di temporizzazione, gli intensi
brillamenti solari aumentano il rumore radio alle frequenze usate dal
GPS. Ne risulterebbero errori di posizione di 50 metri o più, che
renderebbero quasi inutile il sistema. Il 29 ottobre 2003, una tempesta
solare bloccò il Wide Area Augmentation System, una rete radio che
migliora l’accuratezza delle stime del GPS, e gli aerei di linea
dovettero affidarsi ai sistemi di backup di bordo.
Le particelle
ad alta energia interferiranno con le comunicazioni radio degli aerei,
specialmente alle alte latitudini. La United Airlines tiene
costantemente sotto controllo le condizioni meteorologiche spaziali e in
diverse occasioni ha dirottato voli in rotta polare a quote e
latitudini più basse per evitare interferenze radio. Una supertempesta
potrebbe costringere a cambiare la rotta di centinaia di voli non solo
sopra il Polo, ma in tutto il Canada e negli Stati Uniti settentrionali.
Simili condizioni avverse potrebbero perdurare per una settimana.
Come prepararsi
Strano
a dirsi, la crescente vulnerabilità della nostra società alle tempeste
solari è accompagnata da una consapevolezza sempre più ridotta del
pericolo. Analizzando il rilievo dato dai giornali alle notizie di
meteorologia spaziale a partire dal 1840, abbiamo scoperto che intorno
al 1950 si è verificato un cambiamento significativo. Prima di allora,
le tempeste magnetiche, i brillamenti solari e i loro effetti spesso
ricevevano grande attenzione, con ampi articoli in prima pagina. Per
esempio, il 24 marzo 1940, il «Boston Globe» annunciava con un titolone
in apertura: Tempesta magnetica colpisce gli Stati Uniti. Dagli anni
cinquanta, invece, queste notizie sono sepolte nelle pagine interne.
Eppure
anche le tempeste relativamente lievi hanno costi elevati. Nel 2004,
Kevin Forbes, della Catholic University of Amer-ica, e Orville Chris St.
Cyr, del NASA God-dard Space Flight Center, hanno analizzato
l’andamento del mercato dell’energia elettrica dal 1° giugno 2000 al 31
dicembre 2001, concludendo che le tempeste solari avevano incrementato
il prezzo industriale dell’elettricità di circa 500 milioni di dollari.
Dal canto suo, lo U.S. Department of Defense ha stimato che i danni ai
satelliti militari provocati dall’attività solare ammontano a circa 100
milioni di dollari all’anno. Inoltre, tra il 1996 e il 2005, le
compagnie di assicurazione hanno speso quasi due miliardi di dollari per
coprire perdite e danni di satelliti commerciali, molti dei quali
dovuti a eventi meteorologici spaziali.
Avere previsioni più
accurate delle tempeste solari e geomagnetiche sarebbe di grande
utilità. Con un preavviso adeguato, i controllori dei satelliti possono
rimandare manovre delicate e porre rimedio ad anomalie che potrebbero
sfociare in emergenze critiche; le compagnie aeree potrebbero preparare
in anticipo una programmazione ordinata di spostamenti delle rotte; le
aziende elettriche potrebbero individuare i componenti vulnerabili delle
reti e minimizzare le interruzioni del servizio.
La NASA e la
National Science Foundation lavorano da tempo per migliorare le capacità
predittive nel campo della meteorologia spaziale. Oggi lo Space Weather
Prediction Center della NOAA fornisce bollettini quotidiani a oltre
1000 aziende private ed enti statali. Il suo budget annuale di sei
milioni di dollari è ben poca cosa in confronto ai quasi 500 miliardi di
entrate dalle industrie che si servono di quelle previsioni, ma la sua
attività deve basarsi su satelliti progettati più per scopi di ricerca
che per condurre osservazioni efficienti e a lungo termine di
meteorologia spaziale.
Secondo alcuni ricercatori, le nostre
attuali capacità di previsione in questo settore sono confrontabili con
le previsioni del tempo atmosferico degli anni cinquanta. Dal punto di
vista del monitoraggio, occorrono sonde spaziali poco costose e durevoli
che rilevino le condizioni meteorologiche nello spazio usando semplici
strumenti di serie. D’altra parte, sono necessari ancora molti studi per
comprendere a fondo la fisica delle tempeste solari e prevederne gli
effetti. Se vogliamo salvaguardare la nostra infrastruttura tecnologica,
dovremo raddoppiare gli investimenti nella previsione, nella messa a
punto di modelli e nella ricerca di base, in modo da poterci
concretamente preparare alla prossima supertempesta solare.