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lunedì 5 novembre 2012

Il ritorno della grande aurora

(La versione originale di questo articolo è stata pubblicata su "Le Scienze", n.482, ottobre 2008)

Nel 1859 una tempesta solare di incredibile violenza fece impazzire i telegrafi di mezzo mondo. Se un simile evento si ripetesse oggi, le conseguenze per la nostra civiltà tecnologica sarebbero ben più drammatiche. di Sten F. Odenwald e James L. Green



Domenica 28 agosto 1859, mentre sulle Americhe calava la notte, apparvero le fantasmagoriche luci delle aurore. Dal Maine alla punta della Florida, vivide cortine luminose invasero il cielo. Gli abitanti di Cuba videro con stupore le aurore proprio sopra di loro; i diari di bordo delle navi che si trovavano nei pressi dell’equatore descrivono luci cremisi che si innalzavano fino a metà della volta celeste.

In tutto il mondo, gli strumenti scientifici che registravano pazientemente piccole variazioni del magnetismo terrestre balzarono di colpo fuori scala, e correnti elettriche spurie si generarono nelle linee telegrafiche. A Baltimora gli operatori del telegrafo impiegarono 14 ore, dalle 22.00 alle 10.00 del giorno dopo, per trasmettere un notiziario di 400 parole.

Il giovedì successivo, 1° settembre, l’astronomo inglese Richard C. Carrington stava disegnando un gruppo di macchie solari davvero insolito, incuriosito dall’enorme estensione delle aree scure. Alle 11.18, osservò un intenso lampo di luce bianca che proveniva da gruppo di macchie. Lo spettacolo durò solo 5 minuti; 17 ore più tardi, nel continente americano, una seconda ondata di aurore trasformò la notte in giorno fino alla latitudine di Panama. La luce cremisi e verde era abbastanza intensa da permettere di leggere il giornale. I minatori delle Montagne Rocciose si alzarono e fecero colazione all’una di notte, pensando che fosse sorto il Sole in una giornata nuvolosa. Le linee telegrafiche di tutta Europa e Nord America divennero inutilizzabili.

La stampa cercò qualche scienziato in grado di spiegare quello che stava accadendo, ma all’epoca

le conoscenze dei fenomeni aurorali erano scarse. Si ipotizzava che fossero dovuti a materiale meteoritico proveniente dallo spazio, alla luce riflessa da iceberg delle regioni polari o a lampi di alta quota. Fu proprio la «Grande Aurora» del 1859 a inaugurare un nuovo paradigma. Nel numero di «Scientific American» del 15 ottobre di quell’anno si leggeva che «ormai è pienamente dimostrata una connessione tra le luci del nord e le forze dell’elettricità e del magnetismo». Da allora la ricerca ha appurato che i fenomeni aurorali sono generati da eventi solari di grande intensità, che emettono enormi nubi di plasma e perturbano temporaneamente il campo magnetico del nostro pianeta.

Secondo alcuni ricercatori, le nostre attuali capacità di previsione del meteo spaziale sono confrontabili con le previsioni del tempo atmosferico degli anni cinquanta

L’impatto della tempesta del 1859 non fu molto pesante: la civiltà tecnologica era ancora agli albori. Ma se un evento simile si ripetesse oggi, potrebbe danneggiare gravemente i satelliti, interrompere le comunicazioni radio e provocare blackout elettrici su interi continenti che richiederebbero diverse settimane per essere riparati. Fortunatamente, tempeste solari di quella entità si verificano in media una volta ogni 500 anni; ma fenomeni con intensità pari alla metà di quella dell’evento del 1859 si verificano ogni 50 anni circa. L’ultimo, avvenuto il 13 novembre 1960, provocò perturbazioni geomagnetiche e interruzioni delle comunicazioni radio in tutto il mondo. Secondo alcune stime, se non ci prepareremo opportunamente, i costi diretti e indiretti di una futura supertempesta solare potrebbero eguagliare quelli di un grande uragano o terremoto.

La tempesta (solare) perfetta
Il numero di macchie solari, così come altri segni dell’attività magnetica solare, aumenta e diminuisce seguendo un ciclo di 11 anni. Quello in corso è iniziato lo scorso gennaio; nei prossimi 5-6 anni l’attività solare crescerà rispetto alla relativa quiete attuale. Negli 11 anni precedenti, dalla superficie solare sono stati emessi 21.000 brillamenti e 13.000 nubi di gas ionizzato, o plasma. Questi fenomeni, chiamati collettivamente tempeste solari, sono dovuti all’incessante turbolenza del gas che costituisce la nostra stella. Per certi aspetti, si tratta di versioni ingigantite delle tempeste terrestri, con l’importante differenza che i gas solari sono pervasi da campi magnetici che li modellano e infondono loro energia. I brillamenti sono analoghi ai fulmini: sono eruzioni di particelle ad alta energia e di raggi X di grande intensità, dovuti a variazioni del campo magnetico a scala relativamente piccola per lo standard solare, con ampiezza di alcune migliaia di chilometri. Le cosiddette espulsioni di massa coronale (CME) sono paragonabili agli uragani: si tratta di colossali bolle magnetiche, con diametro di milioni di chilometri, che scagliano nello spazio nubi di plasma con massa di miliardi di tonnellate a una velocità di alcuni milioni di chilometri all’ora. 
 La maggior parte di queste tempeste produce solo aurore nei cieli delle alte latitudini: l’equivalente di un modesto temporale pomeridiano. Di tanto in tanto, però, il Sole scatena un uragano. Nessun essere umano vivente ha mai assistito a un’autentica supertempesta solare, ma segni di questi fenomeni sono stati scoperti in luoghi sorprendenti.

Nelle carote di ghiaccio prelevate in Groenlandia e in Antartide, sono stati scoperti picchi della concentrazione di gas nitrati intrappolati, che negli ultimi decenni sembrano associati a eruzioni documentate di particelle solari. Un picco corrispondente al 1859 si distingue dagli altri perché è il più grande degli ultimi 500 anni, e ha un’intensità quasi equivalente alla somma di tutti gli eventi principali degli ultimi 40 anni.
Per quanto violentissima, la supertempesta del 1859 non è qualitativamente diversa dagli eventi minori. Insieme ad altri ricercatori, abbiamo ricostruito quello che accadde basandoci su cronache dell’epoca e su misurazioni satellitari di tempeste più lievi degli ultimi decenni.

1. Avvisaglie di tempesta. Le condizioni che prepararono la supertempesta del 1859 si manifestarono intorno al picco del ciclo solare con la comparsa sul Sole di un grande gruppo di macchie in posizione quasi equatoriale. Le macchie erano così estese che astronomi come Carrington riuscirono a osservarle a occhio nudo (naturalmente con opportune protezioni). Al momento dell’emissione della prima CME, questo gruppo di macchie fronteggiava la Terra, collocando il nostro pianeta al centro nel mirino. Tuttavia, non è necessario che la mira del Sole sia così precisa. Quando una CME arriva all’altezza dell’orbita terrestre, generalmente si è espansa fino a un’ampiezza di circa 50 milioni di chilometri, migliaia di volte più del diametro del nostro pianeta.

2. La prima eruzione. La supertempesta emise non una, ma due CME. La prima potrebbe aver impiegato le usuali 40-60 ore per raggiungere la Terra. I dati magnetometrici del 1859 fanno pensare che il campo magnetico del plasma espulso avesse una conformazione elicoidale. Quando colpì la Terra, il campo puntava verso nord. Con questo orientamento, rafforzò il campo magnetico del nostro pianeta, e questo ne minimizzò gli effetti. La CME compresse la magnetosfera terrestre – la regione dello spazio in cui il campo magnetico del nostro pianeta prevale su quello solare – e fu registrata dalle stazioni magnetometriche al suolo come un improvviso prodromo di tempesta, nel gergo degli studiosi del Sole. Per il resto, passò inosservata. Tuttavia, mentre il plasma oltrepassava la Terra, il suo campo magnetico ruotò lentamente. Dopo 15 ore risultò opposto, anziché concorde, a quello terrestre, mettendo a contatto le linee di forza orientate verso nord del campo del nostro pianeta con quelle orientate verso sud del campo del plasma. A questo punto vi fu una riconnessione delle linee di forza in una configurazione più semplice, che liberò enormi quantità di energia. È questo il momento in cui iniziarono i disturbi alle comunicazioni via telegrafo e i fenomeni aurorali. In un giorno o due il plasma oltrepassò la Terra e il campo geomagnetico tornò alla normalità.
 3. Il brillamento X. Le CME più violente tipicamente coincidono con uno o più brillamenti di grande intensità, e la supertempesta del 1859 non fece eccezione. Il brillamento nel visibile osservato il 1° settembre implicava temperature di quasi 50 milioni di kelvin. E di conseguenza, emise con ogni probabilità non solo radiazione visibile, ma anche raggi X e gamma. Fu il brillamento solare più luminoso mai registrato, il che testimonia la liberazione di quantità di energia colossali nell’atmosfera solare. La radiazione raggiunse la Terra alla velocità della luce, in 8,5 minuti, anticipando di parecchio la seconda CME. Se all’epoca fossero esistite le radio a onde corte, la deposizione di energia nella ionosfera (lo strato di gas ionizzati ad alta quota che riflette le onde radio) le avrebbe messe fuori uso. L’energia dei raggi X inoltre riscaldò l’alta atmosfera e la fece espandere di decine o addirittura centinaia di chilometri.

4. La seconda eruzione. Prima che il plasma del normale vento solare avesse il tempo di riempire la cavità formata dal passaggio della prima CME, il Sole emise una seconda CME che, non incontrando quasi alcun ostacolo, raggiunse la Terra in appena 17 ore. Questa volta il campo magnetico della CME era orientato verso sud al momento del contatto e il caos geomagnetico fu immediato. La sua violenza fu tale da comprimere la magnetosfera terrestre, che normalmente si estende per circa 60.000 chilometri, fino a soli 7000 chilometri o forse addirittura fino a respingerla all’interno dell’alta stratosfera. Le fasce di radiazione di Van Allen che circondano la Terra furono temporaneamente eliminate, e quantità gigantesche di protoni ed elettroni furono depositate nell’alta atmosfera. Queste particelle potrebbero spiegare le intense aurore rosse osservate in molte parti del mondo.

5. Protoni ad alta energia. Il brillamento solare e le intense CME provocarono l’emissione di protoni accelerati fino a energie pari o superiori a 30 milioni di elettronvolt. Nelle zone artiche, dove la protezione del campo magnetico terrestre è minore, queste particelle penetrarono fino a una quota di 50 chilometri e depositarono ulteriore energia nella ionosfera. Secondo Brian C. Thomas della Washburn University, la pioggia di protoni associata alla supertempesta del 1859 ridusse l’ozono della stratosfera del cinque per cento: furono necessari quattro anni perché lo strato di ozono tornasse alla normalità. I protoni con energie più elevate, superiori a un miliardo di elettronvolt, reagirono con i nuclei degli atomi di azoto e ossigeno dell’atmosfera, generando neutroni e dando origine alle anomalie nell’abbondanza dei nitrati. Una pioggia di neutroni raggiunse il suolo in quello che oggi viene chiamato «evento di superficie», ma allora non esistevano tecnologie in grado di rilevare il fenomeno. Fortunatamente, non era pericolosa per la salute.

6. Correnti elettriche colossali.
Via via che le aurore si diffondevano dalle alte latitudini verso quelle più basse, le correnti elettriche ionosferiche e aurorali che le accompagnavano indussero nel suolo intense correnti elettriche a scala continentale, che penetrarono nei circuiti dei telegrafi. Scariche di eccezionale potenza provocarono casi di folgorazione e, secondo le cronache, causarono l’incendio di parecchie stazioni telegrafiche.
Se vi fosse una supertempesta, i satelliti in orbita bassa correrebbero un notevole rischio di bruciare nell’atmosfera entro settimane o mesi

Satelliti alla brace
Quando avverrà di nuovo una grande tempesta geomagnetica, le prime vittime saranno i satelliti. Anche in circostanze normali, le particelle dei raggi cosmici erodono i pannelli solari e riducono la generazione di energia del due per cento circa all’anno e interferiscono con i circuiti elettronici. Molti satelliti per comunicazioni, come Anik E1 ed E2 nel 1991 e Telstar 401 nel 1997, sono stati danneggiati o addirittura perduti in questo modo. Una grande tempesta solare può «invecchiare» un satellite di 1-3 anni in poche ore, provocando centinaia di anomalie, da comandi erronei ma innocui fino a scariche elettrostatiche distruttive.

Per capire che cosa potrebbe accadere ai satelliti, abbiamo simulato 1000 supertempeste, con intensità variabile da quella dell’evento più grave dell’era spaziale (avvenuto il 20 ottobre 1989) a quella del 1859. È risultato che le tempeste produrrebbero significative perdite economiche: il costo totale, in molti scenari, sarebbe superiore a 20 miliardi di dollari. E questo presupponendo che al momento del lancio dei satelliti siano stati previsti di un’ampia capacità di riserva dei transponder e di un margine di sicurezza del dieci per cento per l’energia. Con ipotesi meno ottimistiche, le perdite si avvicinerebbero a 70 miliardi di dollari, più o meno le entrate di un anno di tutti i satelliti per comunicazioni.

Fortunatamente i satelliti per comunicazioni in orbita geosincrona sono molto resistenti nei confronti di eventi a cadenza decennale, e la loro vita operativa è aumentata dai 5 anni circa del 1980 ai quasi 17 anni di oggi. Per aumentare la produzione di energia e ridurre la massa, i pannelli solari in silicio sono stati sostituiti con altri in arseniuro di gallio e germanio, ottenendo così anche una migliore resistenza a danni prodotti dai raggi cosmici. Inoltre gli operatori satellitari ricevono le previsioni su possibili tempeste solari diffuse dalla National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), e quindi possono evitare di far compiere ai satelliti manovre complesse quando c’è una tempesta in arrivo. Queste strategie potrebbero senz’altro ridurre l’impatto di un evento a grande scala. Per rendere i satelliti ancora più robusti, è possibile installare scudi più spessi, abbassare il voltaggio dei pannelli solari per diminuire il rischio di scariche elettrostatiche incontrollate, aggiungere ulteriori sistemi di backup e rendere il software meno suscettibile alla corruzione di dati.

 Altri effetti di una supertempesta sono però più difficili da sventare. La deposizione di energia da parte dei raggi X provoca l’espansione dell’atmosfera, aumentando l’attrito sui satelliti in orbita a quote inferiori a 600 chilometri. Il satellite giapponese ASCA incontrò simili condizioni nel corso della tempesta del 14 luglio 2000, che scatenò una serie di problemi di assetto e di perdite di potenza che alcuni mesi dopo ne provocarono il rientro anticipato. Se vi fosse una supertempesta, i satelliti in orbita bassa correrebbero un notevole rischio di bruciare nell’atmosfera entro alcune settimane o mesi dall’evento.

Le luci si spengono
I satelliti, comunque, sono stati progettati per funzionare a dispetto dei capricci della meteorologia spaziale. Le linee di distribuzione elettrica, viceversa, sono fragili anche nelle condizioni migliori; si stima che ogni anno l’economia statunitense perda circa 80 miliardi di dollari a causa di cali di corrente e blackout locali.

Durante una tempesta solare, si manifestano problemi del tutto nuovi. I grandi trasformatori sono messi a terra elettricamente e quindi suscettibili di danni causati da correnti continue geomagneticamente indotte. Queste correnti fluiscono nel trasformatore da cavi collegati al suolo e possono provocare picchi di temperatura di 200 gradi centigradi o più negli avvolgimenti, causando la vaporizzazione del liquido di raffreddamento e arrostendo letteralmente il trasformatore. E anche se quest’ultimo riesce a evitare un simile destino, la corrente indotta può saturare il nucleo magnetico durante una metà del ciclo della corrente alternata, distorcendo le forme d’onda a 50 o 60 hertz. Una parte della corrente è trasformata in frequenze che i dispositivi elettrici non sono in grado di filtrare ed eliminare. Anziché ronzare a una tonalità pura, i trasformatori comincerebbero a balbettare e strillare. E poiché una tempesta magnetica influenza i trasformatori su scala continentale, è probabile che si verifichi in breve tempo un collasso della regolazione di tensione su più reti nazionali. I sistemi per la distribuzione di energia elettrica funzionano con un margine di sicurezza così ridotto che non occorrerebbe molto per sopraffarli.

Secondo gli studi di John G. Kappenman della Metatech Corporation, se oggi avvenisse una tempesta magnetica come quella del 15 maggio 1921, causerebbe un blackout su metà del Nord America. Una tempesta molto più violenta, come quella del 1859, potrebbe rendere inutilizzabile l’intera rete elettrica. Anche altre zone industrializzate sono vulnerabili, ma il Nord America è più a rischio per la sua vicinanza al Polo Nord magnetico. A causa dei danni fisici ai trasformatori, per riparare o sostituire tutti i componenti guasti potrebbero occorrere settimane o addirittura mesi. Nel 2003 Kappenman dichiarò al Congresso degli Stati Uniti che «soccorrere e assistere una popolazione colpita che potrebbe essere di oltre 100 milioni di persone sarà una sfida ardua».

Una supertempesta interferirebbe anche con i segnali radio, inclusi quelli dei sistemi di navigazione satellitare. Oltre a perturbare la ionosfera, attraverso cui si propagano i segnali di temporizzazione, gli intensi brillamenti solari aumentano il rumore radio alle frequenze usate dal GPS. Ne risulterebbero errori di posizione di 50 metri o più, che renderebbero quasi inutile il sistema. Il 29 ottobre 2003, una tempesta solare bloccò il Wide Area Augmentation System, una rete radio che migliora l’accuratezza delle stime del GPS, e gli aerei di linea dovettero affidarsi ai sistemi di backup di bordo.

Le particelle ad alta energia interferiranno con le comunicazioni radio degli aerei, specialmente alle alte latitudini. La United Airlines tiene costantemente sotto controllo le condizioni meteorologiche spaziali e in diverse occasioni ha dirottato voli in rotta polare a quote e latitudini più basse per evitare interferenze radio. Una supertempesta potrebbe costringere a cambiare la rotta di centinaia di voli non solo sopra il Polo, ma in tutto il Canada e negli Stati Uniti settentrionali. Simili condizioni avverse potrebbero perdurare per una settimana.

Come prepararsi

Strano a dirsi, la crescente vulnerabilità della nostra società alle tempeste solari è accompagnata da una consapevolezza sempre più ridotta del pericolo. Analizzando il rilievo dato dai giornali alle notizie di meteorologia spaziale a partire dal 1840, abbiamo scoperto che intorno al 1950 si è verificato un cambiamento significativo. Prima di allora, le tempeste magnetiche, i brillamenti solari e i loro effetti spesso ricevevano grande attenzione, con ampi articoli in prima pagina. Per esempio, il 24 marzo 1940, il «Boston Globe» annunciava con un titolone in apertura: Tempesta magnetica colpisce gli Stati Uniti. Dagli anni cinquanta, invece, queste notizie sono sepolte nelle pagine interne.

Eppure anche le tempeste relativamente lievi hanno costi elevati. Nel 2004, Kevin Forbes, della Catholic University of Amer-ica, e Orville Chris St. Cyr, del NASA God-dard Space Flight Center, hanno analizzato l’andamento del mercato dell’energia elettrica dal 1° giugno 2000 al 31 dicembre 2001, concludendo che le tempeste solari avevano incrementato il prezzo industriale dell’elettricità di circa 500 milioni di dollari. Dal canto suo, lo U.S. Department of Defense ha stimato che i danni ai satelliti militari provocati dall’attività solare ammontano a circa 100 milioni di dollari all’anno. Inoltre, tra il 1996 e il 2005, le compagnie di assicurazione hanno speso quasi due miliardi di dollari per coprire perdite e danni di satelliti commerciali, molti dei quali dovuti a eventi meteorologici spaziali.

Avere previsioni più accurate delle tempeste solari e geomagnetiche sarebbe di grande utilità. Con un preavviso adeguato, i controllori dei satelliti possono rimandare manovre delicate e porre rimedio ad anomalie che potrebbero sfociare in emergenze critiche; le compagnie aeree potrebbero preparare in anticipo una programmazione ordinata di spostamenti delle rotte; le aziende elettriche potrebbero individuare i componenti vulnerabili delle reti e minimizzare le interruzioni del servizio.

La NASA e la National Science Foundation lavorano da tempo per migliorare le capacità predittive nel campo della meteorologia spaziale. Oggi lo Space Weather Prediction Center della NOAA fornisce bollettini quotidiani a oltre 1000 aziende private ed enti statali. Il suo budget annuale di sei milioni di dollari è ben poca cosa in confronto ai quasi 500 miliardi di entrate dalle industrie che si servono di quelle previsioni, ma la sua attività deve basarsi su satelliti progettati più per scopi di ricerca che per condurre osservazioni efficienti e a lungo termine di meteorologia spaziale.

Secondo alcuni ricercatori, le nostre attuali capacità di previsione in questo settore sono confrontabili con le previsioni del tempo atmosferico degli anni cinquanta. Dal punto di vista del monitoraggio, occorrono sonde spaziali poco costose e durevoli che rilevino le condizioni meteorologiche nello spazio usando semplici strumenti di serie. D’altra parte, sono necessari ancora molti studi per comprendere a fondo la fisica delle tempeste solari e prevederne gli effetti. Se vogliamo salvaguardare la nostra infrastruttura tecnologica, dovremo raddoppiare gli investimenti nella previsione, nella messa a punto di modelli e nella ricerca di base, in modo da poterci concretamente preparare alla prossima supertempesta solare. 

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